Munch
MUNCH 1863 – 1944
Roma – Complesso del Vittoriano
Via San Pietro in Carcere (Fori Imperiali)
giovedì 10 marzo – domenica 19 giugno 2005
Sotto l’Alto Patronato di Sua Maestà la Regina Sonja di Norvegia
Dal 10 marzo al 19 giugno 2005, nella cornice del Complesso del Vittoriano, la mostra “Munch 1863 – 1944” ha ripercorso l’intero cammino creativo ed umano del grande artista anticipatore dei temi dell’Espressionismo attraverso oltre cento capolavori di cui circa sessanta olii e una cinquantina di opere grafiche tra acquaforti, litografie, xilografie.
Prestiti dai più noti musei internazionali e dalle più importanti sedi espositive norvegesi hanno testimoniato l’angoscia esistenziale moderna che pervade l’opera di Munch e caratterizza la poetica espressionista: “ecco urlare la disperazione: l’uomo chiede urlando la sua anima, un solo grido d’angoscia sale dal nostro tempo. Anche l’arte urla nelle tenebre, chiama al soccorso, invoca lo spirito: è l’Espressionismo” (Herman Bahr, 1916).
La mostra, sotto l’Alto Patronato di Sua Maestà la Regina Sonja di Norvegia, l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica Italiana, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, il Ministero della Cultura Norvegese, si è avvalsa del patrocinio del Senato della Repubblica, Camera dei Deputati, Ministero degli Affari Esteri, Ministero degli Affari Esteri Norvegese, Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Reale Ambasciata di Norvegia, Comune di Oslo, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, ed è stata promossa dal Comune di Roma – Assessorato alle Politiche Culturali, Assessorato alle Politiche Educative e Scolastiche, Assessorato alla Comunicazione –, dalla Provincia di Roma – Presidenza, Assessorato alle Politiche della Cultura, della Comunicazione e dei Sistemi Informativi – e dalla Regione Lazio – Assessorato per la Promozione della Cultura, dello Spettacolo e del Turismo.
L’esposizione “Munch 1863 – 1944” è stata curata di Øivind Storm Bjercke e Achille Bonito Oliva e si è avvalsa di un prestigioso Comitato Scientifico composto da Erik Mørstad ed Einar Petterson. Commissario generale Claudio Strinati. La rassegna è stata organizzata e realizzata da Alessandro Nicosia.
La mostra
“La mia arte ha le sue radici nelle riflessioni sul perché non sono uguale agli altri, sul perché ci fu una maledizione sulla mia culla, sul perché sono stato gettato nel mondo senza poter scegliere…” . E quel senso di morte che pervade tutta la sua produzione pittorica come un’ombra ineluttabile, incombe sul giovane Edvard Munch, nato il 12 dicembre 1863 a Löten, in Norvegia, sin da quando a soli cinque anni perde la madre e a quattordici vede morire la sorella. “Nella casa della mia infanzia abitavano malattia e morte. Non ho mai superato l’infelicità di allora… Così vissi coi morti.”
Le tele di Munch sono popolate da spettri della mente, fantasmi dell’anima, inquietanti presenze dai volti simili a teschi che in una immobilità glaciale ci fissano ora da desolanti interni claustrofobici ora da paesaggi nei quali cieli infuocati si tingono di rosso sangue o di violetti lividi e luttuosi. “I miei quadri sono i miei diari” scrive l’artista e nelle sue opere scrive e riscrive la sua vita in un racconto che si fa visione. La mostra “Munch 1863 – 1944” ha proposto al visitatore un’autobiografia per immagini che diviene, d’altra parte, paradigma universale della sofferta condizione umana: la pittura trasforma l’esperienza singola in specchio del mondo.
Munch, inizialmente iscritto ad un Istituto Tecnico per diventare ingegnere, nell’autunno del 1880 decide di fare il pittore esordendo con soggetti familiari di un naturalismo quasi intimista. Importanti per la sua formazione i viaggi a Parigi (1885) e i soggiorni nel sud della Francia, in Italia e in Germania. Ma ben presto abbandona nella tecnica e nei contenuti la solarità dei colori puri impressionisti; le vibrazioni luminose dell’impressionismo si trasformano in fremiti psichici e anche la linea arabescata dell’Art Nouveau lascia spazio a linee dagli ondeggiamenti ritmici quasi musicali che racchiudono un colore allusivo di una condizione esistenziale che trae origine non dal mondo esterno ma dall’interiorità.
“Non si possono più, scrive Munch, dipingere interni con uomini che leggono e donne che lavorano a maglia. Si dipingeranno esseri viventi che respirano e sentono, soffrono e amano. Sento che lo farò – che sarà facile. Bisogna che la carne prenda forma e che i colori vivano.” Il sentimento dell’esistenza al posto dell’oggetto; l’esperienza emotiva del proprio Io che si dilata in malessere cosmico e diviene la vera fonte di ispirazione dell’artista moderno.
L’incomunicabilità del dolore, il suono quasi assordante del silenzio che separa i vivi racchiusi in una stanza divenuta quasi prigione, si percepiscono nella Morte nella camera della malata, olio su tela del 1893. In Notte a Saint-Cloud (1890) larghe spatolate azzurro-grigie scarnificano l’ombra e fanno emergere nel profilo dell’uomo seduto davanti alla finestra Munch stesso quasi sovrapposto al ricordo del padre morto l’anno prima. Nel malinconico autunno del 1889 scrive l’artista a Parigi: “Non so cos’altro fare se non lasciare che la mia pena invada l’alba e il tramonto… L’aria è grigia e pesante sui tetti, la luce svanisce così presto, tutto si disegna come un profilo d’ombra sul vetro…”
Anche in un altro olio su tela del 1892, la Melanconia sottende il paesaggio; qui la pittura traduce musicalmente questo stato d’animo grazie ad una semplificazione sempre maggiore delle linee, dei contorni che chiudono un colore dal tono dolce e sordo del giallo-oro che pervade il mare, il cielo, una barca lontana, la figura pensosa in primo piano…
E’ il 1908: qualcosa si spezza nella mente di Munch e la follia esplode. “Un uccello da preda si è fissato dentro di me. I suoi artigli sono penetrati nel mio cuore, il suo becco ha trafitto il mio petto, e il battito delle ali ha offuscato il mio cervello”. Completamente svuotato da una psicosi ossessiva, da dilanianti manie di persecuzioni e da allucinazioni che gli procurano una paralisi degli arti, il pittore rimane per otto mesi in una clinica di Copenaghen. Poi l’esilio, cercato e voluto come un’ancora di salvezza agli incubi ossessivi della sua mente. Torna in Norvegia, sceglie di vivere lontano dalla città, cullato dai ritmi semplici di un villaggio, a contatto con la natura. Tra sé e il mondo frappone il recinto del proprio atelier; i suoi quadri diventano baluardi contro la pazzia, “guardie del corpo” contro il grido straziante dell’anima.
In mostra, splendida la litografia de L’urlo (1895), dolorosamente intensa nell’incisività delle linee quasi gorghi di una mente che non sa più contenere l’angoscia. Le mani portate alle orecchie in una sigla che ricorre in tante altre composizioni, non servono a non sentire un urlo che parte da dentro e invade l’universo intero in un tramonto dalle tinte solforose che prelude all’inferno di una mente malata.
E così in Disperazione, olio su tela del 1893-94, l’incubo si fa insostenibile: “camminavo lungo la strada con due amici – il sole tramontava – il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue – mi fermai – mi appoggiai stanco morto a un parapetto – sul fiordo neroazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco – i miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura – e sentii un grande urlo infinito che attraversava la natura”. Nel quadro il colore si fa violento, il taglio diagonale della ringhiera quasi imprigiona i personaggi della composizione e ci catapulta dentro all’opera; le nuvole che grondano sangue sono un gigantesco vortice che risucchia il mondo.
Il ponte e il fiordo funesto ritornano anche in una xilografia su carta del 1896, Paura, dove spettri borghesi si aggirano come fantasmi appena usciti dalle tombe, ancora con i loro cilindri, i loro soprabiti neri, gli occhi infossati in maschere di morte che ci scrutano persecutori.
Munch replica instancabilmente i suoi soggetti, le proprie ossessioni, alla ricerca di una catarsi, di una soluzione al dolore. La coazione a ripetere gli stessi temi è una vera e proprio scelta: “se riprendo più volte un tema è per calarmici dentro più profondamente. Un’immagine non si esaurisce in un unico dipinto. Ogni versione rappresenta un contributo al sentimento della mia prima impressione”.
Lo stesso accade nel momento in cui Munch parla con la pittura dell’amore, vissuto come inquietante connubio tra eros-thanatos nell’atmosfera decadente e malata fin du siècle. La donna è angelo e demonio, Madonna e Vampiro allo stesso tempo, bianca come la purezza virginale e dalle vesti rosse come il peccato; su tutto aleggia il senso di colpa e la tentazione, il desiderio e la paura; l’erotismo diviene un’ossessione che dà le vertigini e conduce ad un piacere dal sapore di morte.
In Pubertà, olio su tela del 1914, l’ombra scura proiettata dall’adolescente nuda, seduta sul letto, le braccia incrociate sul pube, allude alla perdita dell’innocenza, al turbamento della prima tentazione erotica. Ne Il giorno dopo (1894), invece, il sonno della donna stesa sul letto – il braccio abbandonato, le gambe semi aperte, il tavolo con le bottiglie di vino in primo piano – racconta di desolazione e solitudine. Potendo dare la vita, la donna amministra anche la morte e nel momento della seduzione annienta il maschio dimostrando il suo potere distruttivo in un abbraccio mortale che non lascia scampo: nel Vampiro, olio su tela del 1916-18, i capelli della figura femminile diventano filamenti di sangue che inglobano, quasi tela di ragno, la testa dell’uomo cui viene strappata, in un morso ferino, la vita. Anche ne Il bacio l’abbraccio degli amanti non ha nulla di gioioso: i volti si fondono in uno solo ma è un abbandono sinistro, di perdizione e di morte, un risucchio nel nulla, nel non-essere.
Nel 1937, ottantadue dipinti di Munch vengono bollati dai nazisti come “arte degenerata”. L’artista muore di polmonite a Ekely in una fredda giornata del gennaio 1944. Lascia tutti i suoi averi in eredità al Comune di Oslo ove, nel 1963, è inaugurato il Museo a lui dedicato.